Un’immagine pochissimo coordinata. I Topesia erano (eravamo) un gruppo di giovani aspiranti designer, catapultati in maniera un po’ brusca dall’Accademia di Belle Arti di Venezia al mondo del design della calzatura. La prima necessità era un biglietto da visita per presentarsi, e ci divertimmo a progettarlo assieme io e Paola Querin (credo che il lettering manuale sia suo), poi l’esigenza della carta da lettere venne dopo, credo all’epoca delle prime fatture e forse volevamo presentarci in modo un po’ più serioso (ma non troppo) o forse ci eravamo stancati dell’immagine e colori del biglietto, comunque questo fu il risultato.
Quando ero molto giovane disegnavo scarpe.
Frequentavo l’Accademia di belle arti di Venezia e il docente di Design teneva dei corsi che cercava di agganciare a delle realtà produttive del territorio.
Il territorio era il Veneto degli anni ’80, e quindi le realtà produttive di eccellenza non mancavano, anzi.
Nell’anno in cui seguii il corso di Design il tema erano le scarpe, in collegamento con la scuola per stilisti e modellisti calzaturieri del consorzio della Riviera del Brenta.
Il nostro docente negli anni precedenti aveva seguito il modello del premio: venivano prodotti dei progetti, quello giudicato migliore vinceva un premio in denaro e il consorzio industriale di turno acquisiva tutti gli elaborati.
Questa volta invece volle tentare un coinvolgimento diverso, e al posto della premiazione vi fu un gruppo di studenti ammessi direttamente al terzo anno della scuola di stilismo calzaturiero.
Se non ricordo male a frequentare la scuola di Stra fummo in sette. Oltre ai cinque raffigurati nella foto qui sopra c’erano anche Marco Pacelli e Roberta Costalonga.
Marco ci seguiva con simpatia ma non entrò mai nel progetto Topesia.
Il nome del gruppo era quello di una scarpa a testa di topo che realizzammo insieme io e Paola, di cui purtroppo non mi è rimasta neanche una foto.
Comunque me la ricordo molto bene, era così:
Topesia aveva la punta di vernice nera, il muso di nabuk bianco e il resto di camoscio, beh, grigio topo.
In quanto neodiplomati della scuola del consorzio calzaturiero della Riviera Brenta partecipammo a Lineapelle, esponendo ciascuno i propri modelli.
Lineapelle organizzava a ogni edizione un concorso riservato ai giovani designer e noi presentammo la scarpa Topesia a nome di Paola Querin, che vinse il primo premio per la calzatura femminile, mentre un modello di Alfredo vinse il primo premio per la scarpa maschile.
L’inizio era incoraggiante, anche perché avevamo preso diversi contatti nel corso della fiera e ci sembrava di suscitare curiosità e interesse.
Era l’autunno 1987.
Visto che giocare alla mimesi aveva funzionato la prima volta, al concorso di Lineapelle della primavera 88 presentai un sandalo a tema postale e vinsi il primo premio per la calzatura femminile.
Ovviamente eravamo convinti di essere dei geni, credevamo che i nostri lavori fossero qualitativamente superiori e straordinariamente innovativi, e pensavamo che il nostro unico problema fosse non farci fregare dagli industriali cattivoni sul fronte dei soldi.
Col senno di poi forse le cose non stavano esattamente così. Comunque andammo avanti un paio di anni, con defezioni progressive, un po’ per sopraggiunti impegni lavorativi e un po’ per dissapori personali.
Resistemmo fino all’ultimo io e Cristina Colombo, che era quella della cui onestà, precisione e scrupolosità tutti, senza discussioni, ci fidavamo ciecamente e a cui fu quindi affidata dal primo minuto la gestione della cassa (e l’onere di intestarsi la partita Iva).
Insomma i segnali erano incoraggianti ma i soldi davvero pochi e il lavoro tantissimo.
A ottobre 1988 io avevo finito gli studi, vivevo a Padova mantenuto dai miei e non ero in grado di fare una previsione sul momento in cui avrei potuto rendermi autonomo.
Mio padre non mi faceva pressioni esplicite ma si capiva che c’era questo “ma allora?” nell’aria.
Quando nell’estate 1989 mi arrivò la cartolina del distretto militare mi parve una buona occasione per tagliare il cordone ombelicale con sta creatura che non avrei mai avuto il coraggio di soffocare con le mie mani.
Poi la Marina Militare mi mandò a casa per soprannumero, io rimasi a casa di mia madre fino a Dicembre e a gennaio 1990 tornai in Veneto per cercarmi un lavoro.
Cercammo man mano di aggiustare il tiro e arrivammo a creare una microcollezione che proponevamo direttamente alle boutique, tutto sommato con un discreto riscontro ma con utili indecentemente bassi e una procedura produttiva che con un generoso eufemismo si potrebbe definire “molto poco ottimizzata”.
Fu comunque un’esperienza entusiasmante e molto formativa. Negli anni ’90, durante i quali lavorai in diverse agenzie, diverse volte mi ritrovavo a pensare che l’aver cominciato in maniera forse velleitaria ma in autonomia totale, dovendosi assumere in toto la responsabilità delle decisioni, mi avesse dato un approccio al lavoro più maturo e indipendente rispetto alla media dei colleghi miei coetanei.